NASCONDERE QUALCOSA

"Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto" (Calvino)

PREFERIREI DI NO

[…] Come mai non ti si vede in giro, gli dicono, perché te ne stai sepolto lì in quel buco, dicono, niente amici niente feste niente svaghi niente piaceri, e dai esci, vedi un po’ di gente, rispondi all’appello, manda almeno qualche segno di vita. […]

Mi sono sempre piaciute queste righe, tratte da Lo stesso mare (1999) di Amos Oz, come piace qualcosa che appartiene, tocca, punge. Perché in fondo lo sapevo, già vent’anni fa, che parlavano di me e che prima o poi sarei sparita, sepolta nella mia tana, anche se non potevo immaginare le modalità con cui sarebbe successo.

In altre parole, si chiama questa rubrica del Ponte Rosso. In altro silenzio, sarebbe più giusto: da troppo tempo non scrivo. In questo momento, prima di inviargli il pezzo, ancora non so se il direttore sarà tanto indulgente da accettarlo oppure no. Probabilmente meriterei di no. Eppure, mi piacerebbe spiegare (a lui, a voi, e chiarirlo anche a me stessa) cosa ne è stato in questi mesi di me.

Sapete, per tutta la vita mi sono detta che se avessi avuto tempo, avrei scritto il romanzo che custodivo in mente, avrei sistemato le mie poesie, avrei letto tutto Tolstoj, avrei catalogato migliaia di fotografie. Avrei, avrei…

Ebbene, il tempo c’è stato. Per chi ha avuto la fortuna di attraversare indenne il “lockdown” senza essere colpito dal virus e senza che nemmeno i proprio cari lo fossero, insomma per quelli – come me – a cui è stato chiesto soltanto di stare a casa, il tempo c’è stato. Lungo, largo, lento, accumulato ore sulle ore, giorni sui giorni.

Adesso non ci sono più scuse. L’alibi è saltato per aria come un ordigno che ferisce gli occhi. Il tempo c’è stato: e non ho sistemato le poesie, e il romanzo mi si è sfilacciato addosso come un vestito vecchio.

Ho trafficato con le mie numerose piante, insozzandomi di terriccio sotto le unghie. Ho fatto molte pulizie, disinfettando convulsamente tutte le superfici. Ho cambiato posto a piatti, pentole e padelle. Ho anche riordinato un migliaio di libri, senza aprirne uno. La testa era altrove.

Ho avuto un costante senso di colpa, poi di imbarazzo, verso le tante persone con cui avrei potuto collaborare (i poeti – attivissimi, mannaggia a loro… – che organizzavano in Facebook un vortice di dirette con letture e discussioni; il direttore che con immensa pazienza e amicizia mi chiedeva come stavo e se avessi in serbo qualcosa per il Ponte rosso).

Alla fine anche il senso d’imbarazzo se n’è andato, lasciando posto a una noncuranza malinconica e rassegnata. Lasciatemi stare, avrei voluto dire a tutti, lasciatemi stare, ve ne prego. Vi voglio bene, vi stimo, ammiro la vostra inestinguibile energia. Ma io… io sono da un’altra parte, non so ancora dove, non so più chi. Non mi riconosco più. Mi sono scivolate giù dal viso le maschere che avevo appiccicate nel corso degli anni, e la nudità che vi ho trovato sotto mi è completamente nuova.

Sono sempre stata la bambina (“riflessiva”, era scritto nelle pagelle), la ragazza (“seria”), la donna (“osservatrice”) a cui piaceva leggere scrivere e fotografare. D’improvviso ho scoperto che queste cose forse non mi interessavano sul serio, erano solo etichette che mi servivano ad esistere almeno un po’. Se fossero state passioni vere, questo tempo l’avrei adoperato meglio, al loro esclusivo servizio.

Dunque ora sono costretta a incontrarmi e a conoscermi nuova, dolorosamente senza identità, placidamente senza memoria. Cosa ne verrà, ancora non so.

Direte che questo sfogo è troppo intimo e che non interessa a nessuno. Sono ridicola, forse, ma è una cosa che non temo. Il vero ridicolo è colui che non si svela mai. Come nella canzone Le lettere d’amore di Roberto Vecchioni, su Fernando Pessoa, ricordate?

[…] e scrivere d’amore

anche se si fa ridere […]

non aver mai paura di essere ridicoli;

solo chi non ha scritto mai

lettere d’amore

fa veramente ridere […]

Del resto, non si scrive mai altro che di se stessi. Mi piacerebbe (questo sì, ma che presunzione) avere la sapienza di Lalla Romano e trasformare l’umile dato personale in riflessione sul sentire di tutti.

Perché – ditemi – anche voi vi sentite diversi, vero? Non ci credo che vi siate ritrovati tutti esattamente come eravate prima. Non una crisi, non una sbavatura? Non uno smarrimento, a braccia aperte, come quando si mette il piede in fallo sullo scalino?

Mentre cadevo, un personaggio letterario mi è tornato in mente, così simile a me: per la sua distanza siderale dal mondo; per la quieta ostinata risposta con cui si nega ad ogni richiesta; per la “passiva resistenza”, ossimoro che uso a proposito e non per inutile gioco. Bartleby lo scrivano.

Chi di voi già lo conosce, saprà cosa intendo dire. Chi non lo conosce, spero gli si avvicinerà con la discrezione e la gentilezza che sono dovute ad un uomo così forte, così fragile.

Ritratto di Herman Melville

Hermann Melville pubblica il racconto nel 1853, poco tempo prima del ben più noto Moby Dick. L’opera è considerata fin da subito misteriosa, sfuggente, una sorta di rompicapo della letteratura statunitense. Cos’è? Cosa vuol dire? A Bartleby, Italo Calvino voleva dedicare l’ultima delle Lezioni Americane. Purtroppo la morte glielo impedì e a noi manca un punto di vista che sicuramente ci avrebbe illuminati.

Il narratore della vicenda è un avvocato di cui non sappiamo nulla, se non che, per sbrigare le sue faccende d’ufficio, ha bisogno di uno scrivano in più. All’annuncio risponde Bartleby, che si presenta allo studio.

Rivedo ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida! Era Bartleby. Dopo qualche cenno sulle sue qualifiche, lo assunsi, felice di avere nella mia squadra di copisti un uomo dall’aspetto così singolarmente mite.

Un giorno però Bartleby, inizialmente disciplinato e scrupoloso, comincia a rifiutarsi di scrivere. Di fronte a una banale richiesta, risponde con un sorprendente e serafico “Preferirei di no” (“I would prefer not to”).

Lo fissai con aria risoluta. Il volto era smunto nella sua compostezza; gli occhi grigi, fiochi e tranquilli. Non una grinza gli increspava il viso. Se ci fosse stato un sintomo anche minimo di disagio, di rabbia, di insofferenza, di impertinenza, in altre parole se ci fosse stato in lui qualcosa di normalmente umano, lo avrei cacciato con brutalità dal mio ufficio. Ma così come stavano le cose, tanto valeva che decidessi di buttar fuori della porta il pallido busto in gesso di Cicerone.

L’avvocato è comprensivo, paziente. Forse una malattia agli occhi impedisce a Bartleby di lavorare? Ma i giorni passano senza che il bizzarro impiegato cambi atteggiamento. Il datore di lavoro ne è costernato. Ancor di più quando scopre che Bartleby trascorre in quelle stanze anche il tempo libero e le notti, senza mai uscirne. Occupa il suo sgabello fissando il muro, come un eremita in contemplazione dell’orizzonte.

Avrà sì o no mai intenzione d’andarsene? La risposta è sempre la stessa: “Preferirei di no”. Sarà l’avvocato ad andar via, trovandosi un’altra sede per il suo studio.

Bartleby, che ora tutto il condominio cerca di cacciare, vi rimane per settimane ciondolando nei pianerottoli, fino a quando viene portato via a forza, in prigione. L’avvocato, che gli si è in qualche modo affezionato (come ci si affeziona – ossessivamente e senza speranza – alle domande insolubili della vita), andrà a fargli visita in carcere, pagherà il vivandiere affinché lo accudisca con maggiore attenzione e lo faccia mangiare. Ma sarà tutto inutile; nell’ultima triste visita, scoprirà che Bartleby si è lasciato morire d’inedia.

Chi è quest’uomo, dunque? E perché ha deciso di dedicarsi così meticolosamente all’annientamento di sé?

Rappresenta forse la figura dello scrittore, di ogni scrittore? Il titolo, Bartleby the scrivener. A story from Wall Street, dice che tutto ruota attorno all’atto della scrittura e della narrazione (“scrivano” e “storia”, appunto). Quest’uomo che non scrive più rappresenta ogni autore davanti allo spauracchio della pagina bianca?

Ma è anche vero che allo scrivano non si chiede altro che di copiare. E allora la domanda è un’altra… Quanto può perseverare un essere umano a copiare le parole d’altri, i gesti d’altri, i giorni d’altri, l’esistenza d’altri, prima che un granello di follia (o di estrema saggezza) gli inceppi la testa?

E per quale ragione l’avvocato, che in un contesto verosimile andrebbe su tutte le furie, lo lascia invece nei suoi uffici preferendo andar via lui stesso? Quale forza, calma ma potentissima, Bartleby esercita su di lui? Mi viene in mente un racconto del Bestiario (1951) di Julio Cortázar, in cui due abitanti di una casa, fratello e sorella, sentendosi minacciati da oscure presenze, decidono via via di ritirarsi e di limitare il proprio spazio (chiudono il soggiorno, chiudono le camere, chiudono la cucina, fino a ritrovarsi nell’ingresso…). Alla fine escono, attraversano il giardino e abbandonano definitivamente la casa lasciandola in mano ai fantasmi.

Quante interpretazioni diverse, quante suggestioni. Quanti libri, che si parlano l’un l’altro sopra la mia testa confusa. Quanti interrogativi, e quale bellezza disperata possiede un racconto che non risponde nemmeno ad uno ma anzi ne presenta sempre di nuovi…

L’ultimo che mi (e vi) pongo è questo. Melville poteva ambientare la vicenda in un ufficio qualsiasi di una qualsiasi città, anche piccola e di provincia. Ha scelto New York. Ha scelto di mettere un sottotitolo (che poteva non esserci e invece c’è) evidentemente significativo e che perimetra molto precisamente la storia. Wall Street non era quella di oggi, eppure già pullulava di competizione e ricerca del successo finanziario. Insomma era già emblematica di un certo modo di vivere.

Bartleby allora è semplicemente un uomo che – dinnanzi alla frenetica città, in piedi sulla soglia di un mondo chiassoso e stolto – non sa e non vuole farne parte?

Come ben ti comprendo, allora, Bartleby caro, ora più che mai. Nemmeno io vorrei far parte di questa giostra che ha ripreso a girare più pazza di prima. Ecco la ragione per cui in questi mesi ti ho sentito così vicino. E quando mi dicono “e dai esci, vedi un po’ di gente”, io rispondo come te, sai… Rispondo: “Preferirei di no”.

 

Luisella Pacco

2 commenti su “PREFERIREI DI NO

  1. Marisa
    12 settembre 2020

    È bellissimo quello che scrivi, Luisella. In realtà siamo tutti un po’ Bartleby, almeno una volta nella vita. Come in questo periodo di pandemia: accade che la voglia di stare con gli altri possa mancare e che si senta il bisogno di isolarsi, quasi di rintanarsi. Viene a mancare perfino la voglia di leggere, di ascoltare musica, di ridere, e ci si può sentire degli estranei in mezzo agli altri. Anche noi diciamo “preferirei di no”, perché forse temiamo di offendere l’altro, o forse perché non vogliamo che i sensi di colpa ci tormentino più del necessario. Vogliamo stare in pace, ecco. Sì, Bartleby è perfettamente in sintonia anche con il mio pensiero e ho l’impressione che lo stato d’animo che si legge in ciò che scrivi esprima magistralmente il senso di malinconia, e forse l’angoscia dei nostri tempi.

  2. Nel
    12 settembre 2020

    Anch’io capisco perfettamente le linee guida del presente scritto perche’ le sto sperimentando e ne condivido molti passaggi. Ma come per un recondito ordine di autospronamento, so che sta nascendo una sinergia d’intenti comuni che ci chiamano a fare qualche timido passo verso qualcosa di nuovo, piu’ in sintonia con le frequenze di questo nuovo modo di essere nel mondo senza essere del mondo.
    Da qui, in cammino, con in mano una mappa nuova, dove segnare un nuovo percorso in armonia.
    Complimenti Luisella e grazie, n

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Questa voce è stata pubblicata il 12 settembre 2020 da in Articoli per IL PONTE ROSSO.

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