NASCONDERE QUALCOSA

"Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto" (Calvino)

BESTIA DA LATTE di Gian Mario Villalta

Lasciatemi trascurare le consuete modalità con cui si apre una recensione tradizionale, il tedioso cappello che serve all’articolista per far mostra delle cose che sa. Chi è l’autore, cosa ha scritto prima di quest’opera, la narrativa, la poesia, i premi, il festival letterario – uno dei più importanti d’Italia – di cui è direttore artistico. Di Gian Mario Villalta queste cose le sappiamo tutti.

Lasciatemi prendere un’altra via, la mia, quella delle vaghe suggestioni, del comune sentire. Con certi libri, non mi appartiene altro modo che questo.

Lasciatemi dire che è sera e io sto leggendo, a letto, Bestia da latte. La stanza dà sulla terrazza, dove ho molte piante. Ma c’è un vaso, rettangolare, che in questi giorni conquista di più la mia attenzione. Fino a poco fa, c’era solo terra. Poi sono comparsi i primi germogli. Una zolla smossa, poi due, una fogliolina, due, tese verso l’alto per un centimetro o poco più. Ma è una proiezione al cielo che già mi commuove.

Il fatto è che, la scorsa estate, sono tornata – dopo moltissimi anni – in un paesino di montagna dove andavo in vacanza da ragazzina, presso parenti. La casa, grande, massiccia, le imposte azzurre, oggi giace abbandonata. Il nuovo proprietario non se ne cura, vive altrove. Non la ama come io la amerei. Mi hanno detto che forse la farà demolire: occorrono più soldi per ristrutturare che per distruggere e ricostruirne una nuova, anonima. Mi si spezza il cuore.

Ho camminato intorno, ho riconosciuto gli alberi, l’ombra, i frutti. Ho staccato molte prugne dai rami, ci ho soffiato sopra, ripassandole velocemente tra le dita, e le ho divorate, con gli occhi socchiusi, la polpa succosa contro il palato. Altre le ho raccolte in una borsa, le ho portate a Trieste. Non ho buttato i noccioli, li ho conservati, messi a dimora, senza alcuna vera speranza. Invece, questa primavera, eccoli. Uno, due, cinque, undici, tredici. E ancora ne spuntano altri. Non so dire quanti ne verranno, quanti ce la faranno, quanti manterranno la promessa di essere un alberetto, un albero, un’altra ombra, altri frutti.

“Bestia da latte” di Gian Mario Villalta
Ed. SEM, 2018, 153 p., €16

Mentre leggo Bestia da latte questa notte, l’operosità silenziosa e caparbia di quei germogli va in risonanza con le pagine. Il libro e i noccioli, che a due metri da me si schiudono dentro il vaso, mi raccontano le stesse cose. Certo, diversissime sono le vicende, diversi i luoghi. L’allungato e piatto orizzonte della campagna di Gian Mario Villalta e la verticalità dei miei monti. Ma il sentimento (infanzia; confidenze e affetti che la vita adulta ha sfilacciato; un rimpianto crudele per un mondo intero che si è perduto) è lo stesso, e fa bene – e fa male – nella medesima forma.

Il libro mi appartiene intimamente fin dalla frase riportata in quarta di copertina.

A undici anni, in pochi mesi può finire l’infanzia. E i tradimenti che ci sembra di subire a volte li cerchiamo, oppure li inventiamo, per consentire a un’altra età di avere inizio.

E immediatamente mi chiedo quali tradimenti ho subito io, cercandoli, inventandoli… Ecco, è questo che intendo: questo libro è uno specchio.

Qualcuno con cui discorro di letture, mi ha chiesto “Ti piace?” e io ho mugugnato “Sì…”, e ho aggiunto un banalissimo “…sì, è molto bello”. Ma ero falsa, incoerente, maldestra, come lo si è sempre nelle conversazioni rapide in ambienti rumorosi. La questione non è “mi piace, non mi piace, è scritto bene, male”. La questione è che ti ci vedi dentro.

Se hai una certa età, se rammenti o hai almeno gli strumenti per rammentare il cambiamento degli anni ’60/’70, quando l’Italia mutava di colpo, quando il boom non era solo economico ma era un’esplosione nel petto (sonora, bella, ma non sapevamo ancora quanto dolorosa) – in questo libro ci caschi con tutte le scarpe.

È una lettura che francamente non consiglierei a un giovanissimo, uno che non ricorda, che non possiede neanche una Polaroid di quand’era piccolo e ci si riuniva attorno al televisore fotografato come un parente, o attorno alla Fiat 1500, sorridendo in una giornata di sole, mentre il padre poggiava orgoglioso i gomiti sull’ampia portiera tenuta aperta. Né saprebbe leggerlo uno che – sull’altro versante del boom, la sponda di ciò che si lasciava – non abbia mai accarezzato il muso caldo di una vacca, mentre una lingua prodigiosamente lunga gli leccava tutto l’avambraccio.

L’attitudine, la capacità, la fisicità e il tormento del ricordo sono requisiti essenziali per capire questo libro.

Un romanzo che nasce, o almeno così sembra, da una profonda elaborazione personale. E allora non stupisce che a una presentazione, un giornalista abbia chiesto come prima cosa all’autore se questa storia fosse autobiografica. Nella risposta di Villalta, tutta la saggezza di uno scrittore vero. Che per raccontare storie in senso artistico, cioè che abbiano la verità che è propria dell’arte, bisogna inventare. Qualsiasi racconto dei fatti propri, cadrebbe nella falsità, perché si tende a salvare se stessi, a giustificarsi, a tenersi fuori, pur non volendo… E poi, come raccontare il proprio passato, se il passato non esiste? Ne esistono delle tracce, ma niente di più, e se ci torniamo sopra con la memoria lo trasformiamo, lo reinterpretiamo, ogni volta…

Villalta confida anche che, quando con l’editore, si sono confrontati su cosa scrivere nella bandella, hanno scoperto che era arduo riassumere questo romanzo. Sono d’accordo, è difficilissimo. Pur così breve, Bestia da latte ha un orizzonte largo, eccezionale.

Un romanzo sulla memoria, sul dolore, sulla paura, sull’incomunicabilità tra esseri umani e ancor peggio tra familiari, che arrancano nella vita adulta portandosi dietro cose non dette, mai chiarite.

Romanzo di nostalgia? Sì. No. Anche. Forse. Ma attenzione, se si tratta di nostalgia, è per quel mondo, per la semplicità dei luoghi, delle corse in fondo ai campi, delle stalle considerate ancora un luogo tiepido e benedetto. Dove l’odore non era cattivo; non lo si percepiva come tale. Un posto dove le vacche mangiavano fieno maturato con cura, cera sempre qualcuno che ripuliva il letame dalla lettiera e le strigliava. La greppia era puntualmente spazzata. La paglia veniva sparsa in abbondanza. Lodore delle stalle era buono, e nei mesi invernali, quando la stufa della cucina non riusciva a mitigare il gran gelo, il calore era un beneficio. In certi giorni dinverno più crudi, il sabato pomeriggio si portavano il mastello e l’acqua calda nella stalla per lavarsi a fondo.

Nostalgia di quel mondo in cui le bestie facevano parte della famiglia, in un certo senso. Non erano ancora una proprietà da sfruttare in modo intensivo. Si era vissuti con loro, fino a quel momento. La loro uccisione aveva avuto la ritualità tragica di un sacrificio. Tra tutti gli animali le vacche erano al primo posto, al punto che si chiamavano le bestie“, come se meritassero più di tutti gli altri quel nome. “Bestienon era peggiorativo, perché non usavamo la parola animalenel nostro dialetto, c’era solo la parola “bestiaper dire animale”, e le vacche erano gli animali per eccellenza. Si usava il latte come alimento, se ne faceva burro e formaggio. Ma “le bestie” erano anche la forza che trainava i carri, arava la terra e consentiva molti lavori dei campi.

È nostalgia di tutto questo, e di come era fatto il paese, e di come erano fatte le case.

[…] sparirono le ultime casette di quattro stanze con la stalla attaccata su un fianco, per lasciare il posto alle villette costruite in economia nell’inconfondibile stile da geometra (seminterrato con garage, piano rialzato con cucina, sala da pranzo-salotto più due o tre camere, sottotetto con soffitta). Erano così le abitazioni che allora sorgevano nuove. E diventarono simili le vecchie case rimodernate.

Uno sguardo lungo, addolorato, quello di Villalta, su un cambiamento epocale e che sembra lontanissimo, e invece è avvenuto ieri l’altro, lasciandoci completamente smarriti.

Poi vennero i capannoni, minuscoli o enormi, ovunque, attaccati alle case, dove prima c’erano le stalle, oppure sparsi in ogni appezzamento che si trovasse nelle vicinanze di una strada con una migliore viabilità. Prima di allora, le abitazioni erano formate da due parti distinte, che però costituivano un’unità: la cucina, le camere e la stalla. In tutta la campagna, paesotti e paesini, non c’era una casa che non avesse una stalla annessa, anche piccola, per due, tre vacche, a volte una sola. Nel borgo c’erano la chiesa e qualche modesta attività artigianale, un paio di negozi, una piazza con un monumento ai caduti della Prima guerra, la scuola elementare: questo era il centro della maggior parte delle località, […]

Ma non è nostalgia per ciò che vi accadeva. L’io narrante, ormai uomo, divenuto padre, ha un groppo di dolore che non sa risolvere. Quand’era bambino, è stato vittima di una violenza inaudita, feroce, imprevedibile. Suo persecutore, che passava da compagno di giochi a carnefice in maniera repentina e immotivata, era il cugino Giuseppe, più grande di lui di cinque anni.

Attorno, altri, tanti, personaggi. Ciascuno portatore di un sasso che pare scivolare da un pendìo. Gli smottamenti iniziano così. Anche quelli dell’anima, a distanza di tanti anni.

E nel frattempo, cambiano tutte le cose. Cambia il modo di vivere e gestire la terra, le bestie, che non sono più compagne di vita, ma diventano prodotti, categorie merceologiche (“bestie da latte” e “bestie da carne”, appunto), e le stalle cominciano a puzzare (e se l’odore è lo stesso, sono cambiate le nostre narici).

Forse è in questi anni che anche i due ragazzini, e poi uomini, diventano esemplari di categorie distinte. Giuseppe, bestia da carne, vorace di denaro di donne di novità. Il protagonista, bestia da latte. Ero destinato a una più lunga pazienza, per produrre di più, per molto più tempo. Dovevo adoperarmi per risarcire in futuro il costo del mio allevamento, dovevo battere record, eccellere in qualità.

Nella casa, anche dopo la fine delle violenze, del nonno-padrone su Giuseppe e poi di Giuseppe sul protagonista, permangono rancori e malumori insanabili, un veleno che intossica lento anche a distanza, nelle onde degli anni. Non serve diventare grandi, non serve cercare un confronto. Parlare non si può. Se ci si prova, non si viene compresi.

E le occasioni per parlare, del resto, per guardarsi negli occhi, sono sempre di meno. Cambia tutto, anche il modo di sentirsi (o non sentirsi) famiglia.

Non ci si presentava più a casa dei parenti senza avvisare. Anzi, non ci si andava più per niente. Diventò normale che i figli volessero uscire di casa, appena si sposavano, fino a quando nessuno pensò più neppure per scherzo a parlare di condividere la vita domestica con i genitori. Divenne importante andare via per le vacanze. Le domeniche, le festività natalizie e pasquali non richiedevano più le riunioni di famiglia, le pentole sul fuoco dal giorno prima, le tavole aggiunte per far sedere i parenti. Neppure ai battesimi, alle cresime e infine ai matrimoni e ai funerali diventò indispensabile la presenza, se non si era parenti stretti.

Eppure l’uomo fatto, che ancora mastica e rimastica il passato, lo studia come per spremerne la verità, lo sa che da bambino è stato amato, seguito, accudito. Com’è possibile dunque che nessuno si accorgesse che viveva nel terrore degli agguati e del furore di Giuseppe?

Non ero trascurato, questo no, la pulizia, il nutrimento, il sonno, il modo di parlare, tutto era seguito con attenzione, anche l’acquisto dei libri da leggere, la scelta dei vestiti. Non ero affatto trascurato, ero solo.

Ha rischiato la morte, letteralmente. E ha rischiato di uccidere, perché un giorno ha imbracciato un fucile carico ed è andato a cercare Giuseppe. Non l’ha trovato. Semplicemente questo: non l’ha trovato. Cosa sarebbe accaduto altrimenti?

Un libro densissimo, di poche pagine ma con uno spessore viscerale che lascia spiazzati e forse più maturi, consapevoli di quanto danno il silenzio possa fare.

A questi nostri tempi che, per molti aspetti sono più disumani, concediamo almeno il privilegio nuovo della confidenza tra padri e figli, che mangiano una pizza insieme, che vanno a far la spesa, che non temono di scoprirsi.

La dedica alla figlia parla chiaro. A Vittoria, per le domande.

Nelle famiglie occorre saper chiedere, occorre rispondere.

 

© Luisella Pacco

2 commenti su “BESTIA DA LATTE di Gian Mario Villalta

  1. Dario Predonzan
    7 Maggio 2018

    Bellissima recensione. Un altro libro da leggere, anche per fare i conti – una volta di più (non sarà mai abbastanza) – con le proprie memorie, attraverso quelle altrui.

    • Luisella Pacco
      8 Maggio 2018

      Grazie Dario.

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Questa voce è stata pubblicata il 6 Maggio 2018 da in Articoli per IL PONTE ROSSO con tag .

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