"Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto" (Calvino)
Igor Sevken, di media statura, asciutto e agile, i capelli color delle foglie secche di granoturco, ha sessantacinque anni ma non li dimostra.Vive a Duino, in un beato angolo tra cielo e mare.
Un giorno riceve una lettera. Lucie Huet, una psicologa di Parigi, gli ha scritto commentando il suo articolo sull’esperienza in un campo di sterminio nei Vosgi, apparso su una rivista francese.
Igor dà per scontato si tratti di una coetanea che ha conosciuto lo stesso dolore e vuole condividerlo. È incerto su come risponderle, lascia la lettera tra la posta da smaltire, rimandando l’eventuale incontro alla sua successiva visita a Parigi.
Ma lì, al caffè in Saint-Germain-des-Près dove si sono dati appuntamento, Igor incontra una donna bruna di capelli, minuta e graziosa, di trent’anni.
Dunque, non è una ex deportata. Eppure Igor avvertiva una comunanza che non riusciva a spiegarsi, ma che dava l’impressione di un’insolita affinità interiore. Quale può essere lo strazio che così tanto la unisce al suo?
Il petalo giallo (titolo originale Zibelka sveta, poiché la donna è la culla del mondo) è un romanzo d’amore, dalla struttura leggera ma dal peso specifico altissimo perché pone una domanda, molte domande, sul Male.
Può il Male subito da milioni di persone, in circostanze tragicamente eccezionali come quelle dei campi di sterminio, essere paragonato al male sofferto da un singolo dalla vita esteriormente normale? Può il senso di alienazione e perdita delle vittime dei campi essere anche solo accostato al secondo senza che il confronto sembri un’eresia? Il Male marchia sempre allo stesso modo? E soprattutto, il Male lascia scampo alla capacità di amare ancora?
L’incontro di Igor e Lucie ha qualcosa di miracoloso eppure di ovvio.
Ci sono sconosciuti che banalmente, in un certo momento della vita, si conoscono. E ce ne sono altri che si ritrovano, scoprendo che, nonostante i labirinti e i giochi della geografia e dell’anagrafe, “sconosciuti” non lo sono stati mai. Basta poco: un caffè, una voce, un silenzio, un’ombra negli occhi, per riconoscersi come anime vicine e per specchiarsi nudi e inermi nella verità propria e dell’altro. Accade così a Igor e Lucie.
Eppure, dicevo, questo è un libro denso, difficile. Lo si attraversa con la fatica, l’obbligo, di dover capire qualcosa che non viene né spontaneo né facile. L’amore non è spontaneo né facile (nessuno ce lo venga a raccontare, è una scemenza). L’amore è forse la cosa più estenuante del mondo, soprattutto per chi ha conosciuto – in qualsiasi forma – il male. Molto più comodo è chiudersi a riccio, dire di non credere più a niente e a nessuno.
E questo è un libro ostico anche per un’altra ragione. C’è, in ciascuno di noi, una parte ipocrita giudicante e perbenista che condannerebbe senz’altro un amore così: per la troppa differenza d’età, per la rapidità con cui Igor e Lucie infrangono ogni barriera, per l’intimità intellettuale e fisica che viene loro così naturale (da invidiarli – o condannarli, appunto, come quando non si vuole ammettere l’invidia…), e soprattutto per l’apparente bestemmia di equiparare il martirio di milioni di persone al tormento privato di una sola.
Potrebbe fare così, Igor. Potrebbe guardare quella ragazza e dirle: “Cosa vuoi? Tu, tu che non hai conosciuto niente, patito niente, visto niente. Cosa vuoi capire? E come osi paragonarti a me che sono uscito dall’inferno?”
E anche Lucie, che scopriremo vittima della più cupa delle violenze familiari, poteva chiudersi. Poteva non scrivere affatto a quel maturo signore, e rimanere reclusa nella sfiducia verso tutti gli uomini.
E invece, Igor e Lucie si aprono l’un l’altra. Non è una questione di “perdono”. Anche chi perdona, dopotutto, è incatenato a ciò che deve perdonare. È qualcosa di più elevato e rinnovatore, qualcosa che consente di andare avanti e di vivere pienamente ancora.
C’è un passo in cui si fa cenno a Hiroshima mon amour (Igor vede in Lucie la protagonista, interpretata da Emmanuelle Riva). E in effetti, i cardini del romanzo di Boris Pahor e della struggente sceneggiatura di Marguerite Duras sono gli stessi: memoria, oblio, amore come dono di se stessi e della propria desolazione.
Anche nel celebre film di Alain Resnais, c’è un ardito, quasi blasfemo, parallelo tra Mali diversi: quello intimo, esclusivo, di lei che ha perduto il suo grande amore e che per questo lutto ha sfiorato la pazzia; e quello immane della bomba atomica su Hiroshima. Il dolore piccolo di una singola anima (ma può mai dirsi piccolo?) davanti a un dolore che è diventato collettivo, cicatrice del mondo.
L’analogia si manifesta anche nell’amore, le spiega Igor. Come dice la Duras, l’eroina offre all’amato quel che ha di più caro: la sua sopravvivenza dopo la morte del suo amore a Nevers […] Gli dona la sua devastazione interiore. Be’, nel tuo caso è tutto ancora più difficile, tu eri come morta al pari di chi ti aveva fatto sfiorire. È per questo che tu in amore offri molto di più.
La grande lezione di Igor, di Lucie e di questo romanzo è che l’unica vera via di scampo al male è proteggere la capacità di amare, mantenerla cristallina come quando eravamo innocenti, e spenderla entusiasti come quando non avevamo ancora subito alcuna offesa.
È assurdo pensare che chi è stato segnato dal male possa sprecare il dono dell’amore, al contrario: ne ha fame e sete con tutte le forze del suo animo e le cellule del suo corpo.
Luisella Pacco